Racconti intensi e poetici. Lettura 8 minuti

Guardo avanti. L’autista, un ragazzo biondo dai tratti nordici, carnagione bianco latte e occhi chiari, ha un’aria pulita, quasi fosse appena uscito da una scatola di saponette profumate. Controlla la strada con attenzione.
Di fianco a lui, un uomo dallo sguardo duro e autoritario prende in mano un microfono e inizia a parlare:
— Fino ad ora avete dormito… adesso si inizia a pregare!
Pregare? Non prego da chissà quanti anni. Da bambino qualche preghiera l’avevo imparata a memoria. Non tutte, però: alcune mi risultavano ostiche. Cercavo di afferrarle durante la messa della domenica. Quando cominciava la tiritera generale e tutte le voci si fondevano in un’altalena di parole indistinte, aguzzavo le orecchie cercando di distillare quel suono unico in parole chiare. Poi, stremato, finivo per copiare solo l’ultima parola di ogni frase.
Pregare, a sette anni, non è semplice.
Ricordo che era settembre. Il dottore aveva detto a mia madre di portarmi in ospedale, per i miei tic. A Napoli, disse, avrebbero saputo cosa fare. Solo qualche giorno prima, i miei avevano acquistato il loro primo giradischi. La musica che usciva dal vinile nero si propagava per il salotto ancora vuoto — avevamo traslocato da poco, da un palazzo in città a una villetta in campagna — e rimbalzava da una parete all’altra amplificando la voce di Mario del Monaco, l’unico disco in loro possesso. Io avevo avuto in regalo una radiolina, di quelle con l’antenna estraibile in acciaio e il pomello per la ricerca AM e FM, rossa, bellissima.
“Andiamo domani mattina, ti visitano, e poi al ritorno, nel pomeriggio andiamo dai nonni per la Festa dei Gigli.”
La Festa dei Gigli. A Barra, quartiere di Napoli.
Chi non l’ha mai vista o non ne ha mai sentito parlare non può immaginare cosa sia. Piramidi di legno alte 25 metri e pesanti 30 o 40 quintali, sollevate a spalla da 120 uomini grossi e sudati. Un’orchestrina rumorosa con tamburi e trombe suonava e cantava arrampicata su una pedana di legno, posta sopra la struttura che reggeva i varretelli e le varre dove erano sistemati in file ordinate i portatori, la paranza, che muovendosi a piccolissimi passi coordinati e ritmici, faceva ballare, sussultare, ruotare la grande struttura.
Dum du du dum, du-du-du-du-du-dum, papparapah… papparapah… cuoncie cuoncie e yetth! All’ultimo suono delle trombe e dei tamburi e di quei versi incomprensibili, la paranza lasciava cadere in terra, con un colpo secco, il Giglio. La cima della piramide ondeggiava pericolosamente per qualche minuto, quasi volesse continuare a danzare, e poi si fermava, come un giocattolo a cui avessero tolto le batterie. Gli uomini a dorso nudo, con uno straccio rosso intorno al collo, si precipitavano fuori dalla macchina di legno, col petto in fuori e il volto sicuro e sfacciato. Davanti a loro una folla allegra e urlante che danzava, saltava, cantava. Nei vicoli più stretti, il Giglio si bloccava nelle curve squadrate, ed allora interveniva la gente, spingendo sui varretelli e le varre: facce rosse, muscoli gonfi, gote sbuffanti, occhi stralunati, braccia protese, visi in smorfie contorte.
Arrivammo in ospedale in mattinata, stretti nella piccola Fiat 500 azzurro bebè.
Salimmo le scale buie e anguste, impregnate di quello strano odore che conferisce alle cose un sapore antico e nostalgico. Il piccolo ascensore di legno, con le griglie di ferro e le porte a battuta, era fermo al primo piano. Salimmo a piedi. Il pianerottolo del quarto, dai pavimenti in marmo bianco, conduceva a un ingresso chiuso da una porta di ferro che dava su un lungo corridoio grigio. Lo percorremmo. A destra e a sinistra cinque porte marroni disposte in fila ordinata.
“Sbrighiamo tutto in fretta,” disse la mamma, “e poi tutti alla festa.”
Mi sistemarono in camera: il letto, il comodino, il pigiamino nuovo di zecca, l’ultimo sguardo di mio fratello, quello preoccupato di mia madre e quello rassicurante di mio padre. Poi, rimasi solo.
Aspettai con ansia che il medico arrivasse, seduto sul mio lettino, sistemato proprio davanti all’ingresso dell’ultima stanza in fondo, sulla destra, prima del grande finestrone che, dopo aver chiuso il corridoio, si affacciava a guardare il cielo di Napoli.
Passarono le ore. Non arrivò nessuno.
La stanza era luminosa. Due letti, due comodini e due armadietti in metallo grigio. Mia compagna di viaggio, una bambina dai capelli biondi e dagli occhi azzurri. Nella camera entrarono quattro persone con un grosso macchinario pieno di fili. Cinque minuti dopo, nel controluce del mattino, vidi uno di loro infilare, uno ad uno, degli aghi in quel fragile corpicino. La bimba piangeva disperata, chiamando straziata: “Mamma, mamma, voglio la mamma!” Ma non arrivò.
Seduto sul mio lettino osservavo, impaurito. Malgrado la luce che penetrava dalla finestra proprio dietro il letto della mia sventurata compagna, non riuscivo a scorgerne il volto. Tutto era confuso in un accecante, interminabile lampo di luce.
Mi rintanai con la testa sotto il cuscino. Sarebbe toccato anche a me?
Contai i minuti, poi le ore. Il giorno divenne sera. La bambina continuava a piangere, inconsolabile. Avvertii l’odore della tuta blu di mio padre, quando tornava la sera a casa dal lavoro in fabbrica. Un grasso di macchina che sapeva di buono, che infondeva sicurezza. “Sono qui,” gridava, appena entrato dalla porta. Io non lo vedevo ma lo percepivo. E questo mi bastava. Mi aggrappai a quell’odore immaginario, a quell’abbraccio interiore, e aspettai. Invano.
Verso sera una donna con cuffietta azzurra e bianca si affacciò alla porta: “Tra poco si spengono le luci, tutti a dormire”. E se ne andò.
Le luci si spensero. Una luce fioca penetrò dalla finestra sulla città ancora sveglia.
Mi infilai sotto la coperta marrone e nascosi la testa sotto al cuscino, tra le mani la mia radiolina. L’accesi piano. Un fruscio bianco e voci lontane animarono la scatoletta rossa. Continuai a ruotare la rotellina. La griglia tonda, d’improvviso, iniziò: «Passerotto, non andare viaaaaa, senza i tuoi capricci che farò». Quella canzone, che non avevo mai sentito, mi percorse tutto. Era così che mi sentivo, un passero perso nel gelo di un inverno buio. Tesi l’orecchio ai rumori che non udivo e fu allora che, nel silenzio di quella oscurità, con gli occhi chiusi, finalmente, piansi.
E sognai. I miei fratelli affacciati alla finestra della nonna, la folla urlante, il frastuono del Giglio che passava, le facce buffe degli uomini sudati e forti, coi gibbi enormi sulla schiena, che sfilavano, sicuri, uno dopo l’altro, le teste ravvicinate e tese. Le vedevo muoversi lente in un unicum senza spazio e senza tempo.
Vidi la casa della nonna, i grandi chiacchierare animatamente — come erano soliti fare la domenica — le loro risate compiaciute, le zie vestite per la festa, la nonna ai fornelli, nella piccola cucina senza finestra. Mia madre, mio padre. Sentii il profumo dei maccheroni col pepe, e poi quello del caffè corretto all’anice.
Rimasi in ospedale per un lungo, interminabile mese.
Di mattina percorrevo il corridoio semibuio, guardando attraverso le porte socchiuse. Osservavo incuriosito quei bambini dai quali non sentivo mai uscire parole, solo lamenti, silenzi profondi. C’erano due gemelli che camminavano sempre insieme, una bambina muta — uno spavento le aveva tolto la parola — e la biondina dagli occhi azzurri a cui non ebbi mai il coraggio di parlare. Di altri non ricordo bene: solo volti sfocati e tristi.
Rimanevo per lo più solo. La mia passeggiata si limitava a percorrere il corridoio fino in fondo. Passavo davanti ai bagni, tappandomi il naso per l’odore acre di creolina, guardavo le infermiere indaffarate, le suore con cappelli larghi e abiti lunghi. Raggiungevo l’inferriata nera che separava il corridoio dal pianerottolo, poi tornavo indietro fino al finestrone. Restavo lì per ore, a guardare il parcheggio pieno di gente che andava e veniva, cercando l’azzurro della Fiat 500, il passo di mio padre, quello elegante di mia madre. E più in là, i palazzi grigi e rosso pompeiano e le strade che si perdevano in labirinti misteriosi.
Ogni tanto un medico mi chiamava, mi faceva sedere e poi, con calma, mi proponeva degli scarabocchi neri su fogli bianchi.
Ero affascinato da quel gioco. Immaginavo animali fantastici, dame e cavalieri, cieli stellati, farfalle giganti, draghi bicefali che attraversavano mondi popolati da gnomi e fate.
Pregare. Anche lì si pregava. La domenica, al piano di sotto. E anche lì non capivo le parole. Ma non importava. Dalle finestre entrava una luce chiara e profumata. Restavo incantato nel vedere come potesse riflettersi su tutto e tutti. Intorno a me, un mondo di camici bianchi che rifletteva quella luce con il corpo, gli occhi, il viso. Il mio universo interiore si ravvivava, risuonando all’unisono.
In quel momento, ero felice.
© 2025 Carlo Importuna — Tutti i diritti riservati
Se anche a te piacciono i racconti intensi e poetici leggi anche: Zamira
Racconti intensi e poetici