Un’infanzia sospesa tra realtà e sogno

Zamira

Un’infanzia sospesa tra realtà e sogno

La magia che danza nella luce

Tempo di lettura: 3 minuti

Avrebbe voluto alzarsi e correre il più velocemente possibile… se solo avesse potuto.
Ma le gambe restavano come piantate in un secchio di cemento: rigide e ostinate, come un traliccio dell’alta tensione inchiodato al suolo.
Di tanto in tanto qualcuno passava e lo vedeva, e allora gli pareva di essere vivo.
Se poi quel qualcuno avesse avuto anche l’ardire di rivolgergli la parola, orbene… fuochi e fiamme dell’inferno di Odino!
La gioia gli risaliva fino alla capigliatura striminzita, e pareva accendersi un’aureola — che, intendiamoci, non aveva mai avuto né osava desiderare.
Santo non lo era, e neanche avrebbe voluto diventarlo: troppo faticoso.
E questa era esattamente la sensazione che provava ogni giorno.
In sogno? Forse.
Nella vita di tutti i giorni? Chi può dirlo.

A pensarci bene, era da quando aveva solo sette o otto anni che la strada di casa — l’unica che avesse mai visto senza asfalto — d’estate si illuminava di un colore così acceso che quasi faceva male agli occhi vederne la fine.
E quell’aria tremolante che risaliva in lontananza? Beh, quella ancora non se la spiegava, ma doveva sicuramente avere a che fare con la magia — e ne era arciconvinto.
Il caldo, poi, non aiutava certo a rendere l’atmosfera meno irreale.
“…Zamira scendeva sulla terra una volta l’anno e accompagnava la sua venuta con magie e stratagemmi vari, in modo da non rendere la propria discesa manifesta ai più…”
E così facendo alzava quel suo pulviscolo di aria e di stelle.
Non aveva dubbi in proposito: doveva essere andata proprio così.


Avete mai notato quanta vita c’è in una lamina di luce vista di traverso?
Io sì.
E ogni volta ne resto incantato.

Rimango a osservare la danza degli elementi, muovendo piano la testa per godere dell’effetto tridimensionale.
Ce ne sono di grandi, di piccoli, di piccolissimi… ognuno con una direzione e una velocità diversa: c’è chi scende e chi sale, c’è il timido e lo sfacciato, il debole e il potente, il bello e il brutto, il ricco e il povero.
Eppure, malgrado ogni sforzo, e malgrado ognuno compia il proprio unico e inimitabile balletto, restano sempre e solo in quella maledetta striscia di luce.
Ma se ne saranno mai accorti?

Oh, dolce ulivo, che stendi i tuoi rami contorti a godere del sole caldo dell’estate, in un giugno che si perde nel tempo dei ricordi e della memoria passata…


Ma questa è poesia.
E l’ulivo c’entra come una bottiglia di plastica in mezzo al mare.
O forse no.

Zamira, tuttavia, non resisteva a lungo nel mondo — perlomeno non nella sua strada — perché poi arrivavano le piogge e il vento a spazzare le tristi foglie, che con movimenti rapidi e ondeggianti si posavano ai piedi dei tigli infreddoliti...
Che diavolo, così si perde il ritmo narrativo.
E poi arrivava Sterral.

Avete mai fatto la strada di scuola poggiando il piede su ogni pozzanghera ghiacciata?
Ne avete mai sentito il suono?
Un crick lungo e argenteo, pulito e scintillante.
Lui lo faceva ogni giorno, all’andata, sperando che al ritorno Sterral, soffiando su quelle piccole finestre mezze aperte, le richiudesse velocemente, saldandone le crepe in modo imperfetto — così da lasciare qualche buchino, una fessura dalla quale sbirciare.
E, sbirciando, sicuramente sarebbe apparsa Zamira in tutta la sua magnificenza.


E poi… l’ulivo.
Con le sue piccole foglie e i rami intricati, stesi a godere del caldo calore di giugno.

© 2025 Carlo Importuna — Tutti i diritti riservati.

Racconto: Zamira

Ogni racconto è un piccolo viaggio: grazie per aver camminato piano con me

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